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Il sole di Svevia

Salvatore Miano, Agenzia Mianotour, Barcellona Pozzo di Gotto, Messina
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Quando l'alluvione trasformò la mia agenzia nel porto dei sogni

Questa storia ha inizio sui monti Peloritani, dove un gruppo di taglialegna ha ricevuto la disposizione di tagliare e mettere da parte un mucchio di tronchi di albero che qualcun altro sarebbe andato a raccogliere tempo dopo.

È novembre e su quell’altura che guarda uno degli affluenti del torrente Longano sembra estate, il torrente non esiste neanche, neanche un rivolo di acqua, nulla, è talmente placido e insignificante quel disegno di corso d’acqua che neanche sulle mappe di Google lo trovi.
Spira vento di scirocco, è strano lo scirocco, caldo, viene da Sud, cambia la gente, i comportamenti, gli “sciroccati” a volte dicono cose strane si arrabbiano facilmente, e anche il tempo cambia, all’improvviso, una volta era molto preciso, dopo il terzo giorno di scirocco pioveva, oggi anche il clima è un po’ confuso.

Notte, una notte di novembre come le altre e piove, è naturale che in Sicilia a novembre piova, ma quella notte piove tanto, in una fascia di una manciata di chilometri si scarica in quattro ore la quantità di acqua che si è versata negli stessi luoghi durante il mese più piovoso dell’anno, febbraio.
La mattina dopo, giorno 22, tutto sembra calmo, non piove più, non tanto almeno, ma le colline assetate, arse dal caldo dei giorni precedenti, hanno raccolto tutta l’acqua ma non sono state capaci di mantenerla, a monte si prepara la catastrofe.
Il Longano, non è poi così insignificante, ancora oggi il suo nome influenza molte realtà locali, la nostra è la “città del Longano” infatti, e sta lavorando bene, si è riempito, porta tutta l’acqua raccolta al vicino Tirreno, ma passa sotto una strozzatura, una lunga copertura in cemento armato.

È impetuoso il torrente, ha raggiunto gli argini, è increspato di onde come un mare in tempesta, ma, vigoroso ce la fa, porta giù tutto, peccato che tra il tutto porta anche quei tronchi, che quegli uomini avevano raccolto, e radici, e costoni di collina venuti giù perché incendi estivi li avevano adulterati, ma è buono, fa fatica ma non vuole far male, aspetta che il “ponte” la copertura che gli uomini gli hanno costruito e che è il viale più trafficato della città si svuoti di gente, aspetta che quasi tutti escano dagli uffici, e che vadano verso casa, ma poco dopo le tredici si lascia vincere, si lascia vincere dal tappo che quei tronchi via via hanno formato all’ingresso del ponte, ed esonda.

Non è più contenibile, si riprende via per via tutte le strade che una volta erano il suo letto, eh si, perché alla fine, Barcellona e Pozzo di Gotto, sono costruite sulla fiumara del Longano, solo un argine borbonico lo conteneva, e raccoglie di tutto, auto, moto, chioschi di bar, pulisce persino i muri delle palazzine annerite dallo smog e penetra in ogni anfratto si trovi al piano terra, e riempie ogni cantina, ogni ripostiglio, ogni garage.

Caso vuole avevo portato via la mia famiglia dall’agenzia, caso vuole immaginavamo che ci sarebbe stato qualche “problema” nella mia strada, avevamo smontato i pc dell’agenzia e li avevamo messi sul bancone, in salvo, pensavamo.
Il pomeriggio però tornai nell’area dell’agenzia, un amico mi aveva già avvisato, con insolita crudezza, che l’agenzia era stata distrutta, ma ancora non avevo visto nulla.

E fu il silenzio, per le strade c’era un silenzio assordante, nessun rumore di vetture, nessuna voce, solo rumore di acqua, tanta acqua che scorreva, e cominciavi a vedere al posto dell’asfalto, il fango, e qualche auto semi annegata nel fango, e già sembrava l’apocalisse.
Vetrine sfondate, donne e uomini, attoniti, che cercavano di guadare quella melma per raggiungere i loro cari, o le loro cose, ogni tanto le grida di qualcuno che intrappolato nel fango, preso dal panico, credeva di venire giù come nelle sabbie mobili senza pensare che l’asfalto era a qualche rassicurante decina di centimetri più in basso, e ci cadevano per intero in quel fango.

Ma ancora non avevo visto la mia via, la via Tenente Genovese, che da quel giorno chiamo la via “Torrente” Genovese, dove, per una strana coincidenza, altri tronchi e le vetture portate dal torrente, avevano formato una diga, eh si, a pochi metri più a valle del mio ufficio c’era una diga di castori, fatta di legno e di acciaio, di automobili e di fango.
Davanti alle mie vetrine, file di vetture accatastate una sopra all’altra, venivano dal famoso ponte, qualcuna sembrava persino una barca ormeggiata di fronte all’ingresso dell’ufficio, ormai trasformato in un porto.

Dentro l’acqua, il fango, la legna, i tronchi di albero, ogni cosa, fino a un metro e trentasette di altezza era ormai inservibile, divorata dalla melma.
Fu quel giorno, che trasformò definitivamente la mia vita.
Avevo sempre vissuto quel luogo come un freno, un legame non gradito alla mia terra, ho sempre lavorato per impegno e per voglia di raggiungere risultati, avrei voluto, però, da sempre andare via, e quasi invidiavo quelli che erano costretti a emigrare.
Finalmente mi ero quasi liberato del peso, ero all’improvviso povero e libero, e per due minuti ho vissuto la tragedia della libertà nel dolore per la perdita, qualche istante dopo ho realizzato che avevo troppe responsabilità a cui attendere e che era mio dovere rimettere tutto in piedi.

Sì, ma a modo mio, visto che quel luogo era diventato un porto, un porto doveva, in senso metaforico restare, non sarebbe più stato un freno ma un acceleratore, o mi avrebbe catapultato fuori verso nuovi progetti, nuove rotte, o l’agenzia non sarebbe più stata.

E ricominciai d’accapo.
Mi ero dato un anno di tempo per decidere se comunque andare via.
Nel frattempo il legame con la terra non è diventato pesante, è diventato simbiotico, io do a lei e lei restituisce a me, parto e torno, sono un marinaio, adoro andare via, adoro tornare a casa.
Ad un anno di distanza sono stati compiuti molti passi in quella direzione, parte del mio sogno è reale, lo vivo di giorno in giorno, più sento odore di crisi e più la progettualità si fa avanti, all’alba mi sveglio con i pensieri su ciò che potrei fare e che per limitate risorse non posso fare.

In ogni caso, so sempre di avere un porto sicuro a cui fare ritorno, per poi salpare, per nuove grandi avventure.

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