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Roberto Gentile,
Editorialista turistico, esperto di retail, community-manager, head-hunter
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Se non si trovano più manager, il problema non sono le aziende (turistiche e non) ma la società

Seleziono quadri e dirigenti per le aziende turistiche: mai come quest’anno mi son trovato in difficoltà nel trovare manager seri, preparati e soprattutto motivati. Ruoli e retribuzioni che – solo qualche anno fa – avrebbero attratto candidati a frotte, quest’anno ne hanno attirati poche decine. Quelli bravi si trovano, certo, ma meno che in passato. Della difficoltà di reperire profili intermedi, tipo assistenti di volo o banconisti, ho già scritto. La questione investe tutti i livelli, dal più basso al più alto, ma anche tutti i settori, non solo il turismo. Mi spiego.

Il Censis, meritorio istituto di ricerca socio-economica fondato da Giuseppe De Rita e diretto da Massimiliano Valerii, ha appena pubblicato il “57^ Rapporto sulla situazione sociale del Paese”.

Quello citato in tutti i tiggì perché definisce “sonnambuli” gli italiani del 2023, ovvero ciechi dinanzi ai presagi, insensibili all’impatto dirompente che alcuni processi socio-economici largamente prevedibili (denatalità e invecchiamento, per dirne due) avranno sulla nostra società. Per approfondire, basta cliccare qui, è tutto (meritoriamente) gratis.

Ma qui ci occupiamo di lavoro, quindi il capitolo che c’interessa è quello intitolato “Il tempo dei desideri minori”: “È il tempo dei desideri minori: non più uno stile di vita all’insegna della corsa irrefrenabile verso maggiori consumi come sentiero prediletto per conquistarsi l’agiatezza, ma una più pacata ricerca nel quotidiano di piaceri consolatori per garantirsi uno spicchio di benessere – magari temporaneo e reversibile – in un mondo ostile. Il 74,8% dei lavoratori oggi dichiara esplicitamente di non avere voglia di lavorare di più per poter consumare di più, e non ha intenzione di farsi guidare come in passato dal consumismo. Il lavoro sembra aver perso il suo significato più profondo, come riferimento identitario, perno centrale della vita, misura del successo personale e dell’affermazione sociale, oltre che mezzo di gratificazione economica. Per l’87,3% degli occupati mettere il lavoro al centro della vita è un errore e un plebiscitario 94,7% rivaluta la felicità derivante dalle piccole cose di ogni giorno, il tempo libero, gli hobby, le passioni personali”.

Esempio reale, un mio colloquio di selezione: propongo a una manager 35enne (un talento, come li chiamiamo noi) di cambiare azienda e le prometto più soldi, più benefit, più bonus, più possibilità di carriera. In cambio, le comunico che dovrà abituarsi a una multinazionale (viene da un’impresa familiare), dovrà viaggiare di più, passerà più tempo all’estero che in Italia. Tutte cose scontate, quando si cresce di ruolo. Mi guarda perplessa, ma io sono già pronto a incrementare la Ral, ad aumentare i bonus, a darle una berlina anziché una familiare, come auto aziendale. Nulla di tutto questo. Mi chiede quanto tempo dovrà passare lontano da casa, quanti giorni di smart-working al mese sono previsti, se le conference-call sono adottate come sistema per limitare le trasferte, se il welfare prevede corsi di lingua per le figlie e abbonamenti a circoli sportivi per il marito. Di soldi non si parla proprio. Le mie risposte non la convincono, se dopo un paio di giorni mi dice che preferisce rimanere dove sta.

Potrei farne altri di esempi, anche per ruoli di staff, dove le mie proposte - ovvero, delle aziende che mi hanno incaricato - vengono rifiutate (anche) perché la sede dell’azienda è dall’altra parte della città; (anche) perché andare in ufficio quattro giorni su cinque, e non due, è troppo; (anche) perché in famiglia c’è un bimbo piccolo, entrambi i genitori lavorano, e quindi lui (il candidato) non può stare troppo fuori casa. In tutti questi casi, l’aspetto economico è secondario.

Conclusioni, valide per tutti, non solo Millennials e Gen Z (altro errore comune). Causa pandemia e guerre, in un mondo considerato ostile, questo è il “tempo dei desideri minori”, della ricerca di felicità derivante dalle piccole cose di ogni giorno, della rinuncia a guadagnare di più per consumare di più. “Non è il rifiuto del lavoro in sé” sancisce il Censis “ma un declassamento del lavoro nella gerarchia dei valori personali”.

Ai miei tempi, fare carriera, guadagnare di più, potersi permettere auto e casa erano i parametri coi quali ci si misurava col mondo. Oggi, non più. Avevamo torto noi?

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