Non è facile trascorrere l’11 settembre a New York. Non è facile perché questa data è talmente entrata nella memoria collettiva da non aver bisogno dell’anno (ne sono passati 11) per essere identificata.
Memoria collettiva che ha registrato indelebilmente decine di immagini di fuoco e di dolore, di distruzione e di morte. Non è facile perché se si visita il memoriale dedicato alle vittime dell’attentato, è forte l’emozione che si prova nel guardare le due cascate collocate proprio al posto delle Torri Gemelle, che inghiottono acqua come allora venivano inghiottite migliaia di vite innocenti. Quasi 3.000, che l’11 settembre diventano un nome e cognome, in un elenco interminabile letto da parenti e da sopravvissuti.
Eppure New York non è una città a lutto. Basta fare una passeggiata sulla 5th Avenue o al Greenwich Village per rendersene conto: la gente è indaffarata, ma non è cupa; va di corsa, ma il tempo per un sorriso fuggevole – in ascensore o all’ingresso di un bar – lo trova sempre. Se il tempo è bello i parchi cittadini si riempiono di famiglie con bambini, i negozi con le insegne di Prada o Dolce & Gabbana sono pieni, il food-store eataly nella Quinta Strada è perennemente affollato, vera avanguardia del life-style italiano.
La gente che incontri a New York sembra più ottimista di noi italiani. Lo è perché ne ha vissute tante, perché vede sempre il bicchiere mezzo pieno, perché il diritto alla felicità è sancito addirittura dalla Costituzione. Lo è perché guarda avanti con ottimismo yankee, e si lascia il rimpianto alle spalle.
Noi italiani dovremmo prendere esempio dagli abitanti di New York. Essere consapevoli del momento difficile, motivati nel combattere ognuno la propria battaglia quotidiana, guardare al futuro meno cupamente. Ce l’hanno fatta loro, ce la possiamo fare anche noi.